Il primo verbo che viene in mente in questi giorni e, ancora più stasera, dopo aver ascoltato il Presidente del Consiglio annunciare ulteriori misure è ‘fermarsi’.
Dobbiamo fermarci. E quanto è difficile.
Non possiamo continuare a riempire vuoti muovendoci, andando qua e là. Non possiamo più fuggire a noi stessi. Questo virus vuole che ci fermiamo. Forse un giorno, qualcuno forse già ora, a livello collettivo e a livello individuale capirà perché.
Un dramma è un dramma, non ha nulla di positivo e ne faremmo volentieri a meno. Ora però sappiamo che la soluzione è nello stare a casa. Quella casa che spesso ultimamente abbiamo utilizzato solo come dormitorio ora è un nido ospitale e accogliente.
Quella casa in cui ci sentivamo costretti a stare a faccia a faccia con figli, marito o moglie, nonni, genitori, suoceri, sorelle e fratelli ora ci abbraccia e ci dice che solo tra quelle pareti siamo al sicuro e ci fa da monito nuovo: guardatevi negli occhi, siete importanti l’uno per l’altro.
E così ci sono genitori che aiutano i figli più grandi a fare i compiti e che giocano con i più piccoli a scacciare via il virus con i supereroi, ci sono genitori anziani che chiamano e figli che fanno di tutto per tenere un filo. La telefonata di amici e parenti che domanda come si sta è un’occasione di gioia. Non solo noi stessi, ma l’altro è diventato prezioso.
Fermiamoci. Ascoltiamoci. Abbiamo cura di noi.
Ecco una poesia di una poetessa contemporanea, Mariangela Gualtieri, che può aiutarci a pensare un po’.
Nove marzo duemilaventi (Mariangela Gualtieri)
Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.
Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.
E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere –
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.
Adesso siamo a casa.
È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.
È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.
Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade mi chiedo
non sia piena espressione di quella legge
che governa anche noi – proprio come
ogni stella – ogni particella di cosmo.
Se la materia oscura fosse questo
tenersi insieme di tutto in un ardore
di vita, con la spazzina morte che viene
a equilibrare ogni specie.
Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,
guidata. Non siamo noi
che abbiamo fatto il cielo.
Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.
Ognuno dentro una frenata
che ci riporta indietro, forse nelle lentezze
delle antiche antenate, delle madri.
Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta
il pane. Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.
A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.